La Romagna e Faenza, vecchia città, rossa di mura e turrita


Ad aver contribuito alla storia e all’immagine tutta della Romagna c’è sicuramente Faenza. La stessa città che ebbe modo di ospitare nel collegio dei Salesiani e nel Liceo Torricelli il poeta Dino Campana, nel periodo in cui l’autore dei Canti orfici manifestava i primi segni di squilibrio mentale. Sebastiano Vassalli racconta la vita di Campana nel romanzo La notte della cometa, ammette di non aver «mai creduto, nemmeno per un attimo, nella favola del “poeta pazzo”» e a proposito degli anni faentini scrive «Giugno 1901. La bocciatura di Dino esaspera i contrasti in casa Campana; il padre è fuori di sé perché ha scoperto le assenze del figlio negli ultimi mesi di scuola e vorrebbe conoscerne la ragione: “Cosa facevi? Con chi andavi?”. Dino: “Andavo in giro…”. “Da solo.” Il padre: “Ma perché? Perché?”. Lungo silenzio. La madre: “L’ho sempre detto che è matto. Che questa vostra dei Campana è una famiglia di tarati”». Copertina di Romagna. Dicono di lei. Un viaggio letterario

Dino non avrebbe mai smesso di andare in giro, e nelle sue infaticabili camminate lungo l’appennino tosco-romagnolo si sarebbe lasciato ispirare anche dalla città di Faenza, scorgendola da lontano, avvicinandolesi, «ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso». 

Copertina di Pagine di diario di Pietro NenniA differenza di Dino Campana, di Marradi, Pietro Nenni nacque a Faenza, e in città fu costretto a dieci anni di orfanotrofio, durante i quali il suo spirito ebbe modo di temprarsi, tanto che Nenni sarebbe poi divenuto uno dei più grandi leader del socialismo italiano. Leggiamo tra le sue Pagine di diario «Sono nato in Romagna, a Faenza, il 9 febbraio 1891. Mio padre era un contadino che la città aveva strappato sul tardi alla campagna facendone una specie di fattore dei conti Ginnasi, una nobile famiglia faentina che celava dietro la facciata di un opulento palazzo la lenta disgregazione della vecchia nobiltà papalina. Mia madre era anch’essa venuta dalla campagna alla città per essere dapprima balia nella famiglia dei Ginnasi e poi lattaia. Con la morte del babbo la miseria era entrata in casa nostra. La malignità del destino volle che i lunghi onorati e poco pagati servizi di mio padre e di mia madre alla nobile famiglia Ginnasi mi valessero la protezione della vecchia contessa. La quale si considerò in regola con gli obblighi della cristiana solidarietà quand’ebbe ottenuto di farmi vestire per oltre dieci anni l’uniforme nera a filetti rossi dell’orfanotrofio cittadino. I dieci anni di orfanotrofio sono stati l’inguaribile piaga della mia vita. A questa claustrazione devo un certo complesso di rivoltoso che non mi ha più abbandonato». 

Alfredo Oriani con un cane e una bicicletta sullo sfondoMa a rendere Faenza e la Romagna ancor più celebri, e a consegnar loro un simbolo la cui carica è rimasta inalterata nel tempo, ci pensò Alfredo Oriani, l’uomo che più di ogni altro ha avuto il merito di tessere le lodi della bicicletta. «Da queste parti», scrive Guido Piovene in Viaggio in Italia, «non è facile far arretrare un ciclista, se lo si incontra in automobile in una strada stretta; tutto è occasione di una piccola prova di forza». E in effetti l’identità romagnola tanto deve alla bicicletta e al suo cantore, che nel romanzo del 1902, La bicicletta, narra del viaggio intrapreso sul sellino della sua Bremiambourg da corsa a scatto fisso, partendo dalla Romagna e giungendo in Toscana, «il piacere della bicicletta è quello stesso della libertà, forse meglio di una liberazione, andarsene ovunque, ad ogni momento, arrestandosi alla prima velleità di un capriccio, senza preoccupazioni come per un cavallo, senza servitù come in treno. La bicicletta siamo ancora noi, che vinciamo lo spazio ed il tempo». 

E ad Oriani sembra fare eco Olindo Guerrini con la raccolta di racconti In bicicletta, anche se i due all’epoca si contendevano a colpi di versi lo scettro di poeta della bicicletta, «non c’è arte al mondo che possa esprimere il piacere, direi quasi la voluttà, della vita libera, piena, goduta all’aperto, nelle promesse dell’alba, nel trionfo dei meriggi, nella pace dei tramonti, correndo allegri, faticando concordi, sani, contenti». Copertina de La bicicletta. Dicono di lei. Pedalate d'autore - Elleboro Editore

C’è però un episodio che più di ogni altro ha alimentato il mito della bicicletta in Romagna, una vicenda che risale al 1894 e all’ordinanza dell’allora sindaco di Faenza, Giuseppe Masoni, che vietava l’ingresso in città ai «cavalli di ferro», non semplici biciclette, ma mezzi per «anarchici, sovversivi e ladri». La protesta non si fece attendere, e ne scrisse anche il periodico faentino Il Lamone, in data 24 giugno, «le guardie municipali e gli agenti del dazio avevano ricevuto ordini speciali di usare la massima prudenza di constatare la contravvenzione. Appena però le biciclette entrarono in città (nelle prime file vi era Alfredo Oriani) il pubblico cominciò a fare un’accoglienza ostile e in piazza scoppiarono numerose salve di fischi. […] I ciclisti erano assediati alla Corona dileggiati da un coro assordante di fischi; e, visto che non v’era mezzo di allontanare pacificamente la folla, l’autorità fece venire uno squadrone di cavalleria colle sciabole sfoderate, in mezzo al quale, a piedi, col lume acceso, alle 11 di notte, i dimostranti furono accompagnati fuori di città». E a commento dell’intera faccenda, quanto affermato da Sergio Zavoli, ovvero che per Oriani fu più facile «far entrare il velocipede nella letteratura che farlo entrare materialmente in Faenza».

Sergio Zavoli e altre due persone e sullo sfondo il logo della trasmissione Il processo alla tappaZavoli, giornalista, dal canto suo, con la trasmissione televisiva Il processo alla tappa fece entrare nelle case degli italiani il Giro d’Italia e le gesta memorabili di grandi ciclisti come Gino Bartali e Fausto Coppi. Ne Il ragazzo che io fui, ripercorrendo le tappe della sua vita, Zavoli riflette anche sulla sua terra, e dispensa ai lettori righe tra le più belle mai scritte sulla bicicletta, «Romagna, la mia piccola Cina che pedala senza posa. Le voglio bene anche perché non ha rinnegato la bicicletta. Questa fedeltà silenziosa, mai interrotta, neppure in tempi di crescita e d’abbondanza, è una delle profezie civili dei romagnoli, non smentite neppure quando Armstrong lasciò sulla Luna l’orma della sua scarpa. Non era, e non è, una poetica delle piccole cose, un pensare agreste, casto e rassegnato, né un’abitudine alla penuria: in questa terra continuamente rinnovata dalla modernità dei suoi desideri, la bicicletta, al contrario è un modo di accordare la vita con il tempo e lo spazio, è l’andare e lo stare dentro misure ancora, non so per quanto, umane». 

Parole che sembrano incastonare la bicicletta nella costellazione della speranza.

 

Antonio Scerbo


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