Per Dino Buzzati, l’autore del Deserto dei Tartari, lo sci era “un giochetto esilarante”, “una delle poche cose buone che l’umanità abbia inventato”. Per Goffredo Parise, l’autore dei Sillabari, lo sci era pura felicità. Il colpo di fulmine tra sci e letteratura scoppiò a Cortina, dopo le Olimpiadi del 1956, le prime teletrasmesse in tutto il Paese. “Accadde a Cortina” scrisse Parise in un memorabile pezzo per il Corriere della Sera. Accadde che, ognuno con il suo maestro, gli scrittori si agganciarono ai piedi due pezzi di legno e impararono a scivolare giù per i pendii delle Dolomiti. Per molti di loro l’ebbrezza di quelle discese fu così potente da meritare di essere trasfigurata in romanzi e racconti. Parise (sempre lui) si appassionò così tanto da tentare addirittura l’esame di maestro di sci. Il suo maestro fu Marietto Lacedelli, detto Kobe, un campione dell’epoca con il quale si avventurò anche in diversi ripidi fuoripista, come il temibile “bus de Tofana”.
Parise dedicò alcuni dei Sillabari allo sci e alla neve l’ultimo romanzo incompiuto, dove si narra la storia di uno sciatore (la sua) che si sveglia alla mattina presto a Cortina per assaporare la consistenza della neve. In realtà, però, il primo a dedicare pagine al nuovo sport fu il giovane Ernest Hemingway. Lo scrittore americano arrivò a Cortina nel primo dopoguerra per sciare con Hadley, la prima delle sue mogli, incinta, e frequentare i nobili tra i quali il barone Raimondo Franchetti. Erano gli anni 20 e a quei tempi si praticava il telemark, gli sci avevano il tallone libero, non c’erano che rarissime slittovie e si saliva con le pelli di foca. A Cortina era nato nel 1903 uno Sci club, presieduto da Emil Terschak, figlio di un direttore d’orchestra moravo. Per le guide locali l’insegnamento dello sci per accontentare i clienti aristocratici divenne un nuovo lavoro. Per i clienti, invece, l’apprendimento all’aria aperta era un’esperienza di vita, un’avventura romantica. Non sorprende che la poetessa Antonia Pozzi dedicasse un componimento allo scalatore Emilio Comici, che le insegnava a sciare (si spalancano laghi di stupore nei tuoi occhi) o che Hemingway trovasse parole selvagge per descrivere la sua lotta con la velocità: “Arrivò la prima discesa, circa un mezzo miglio. Gli sci sembravano cadere giù e con un sibilo tutti e tre piombammo giù per il pendio come uccelli”.
Negli anni 20 a Cortina c’era anche il giovane Alberto Moravia. Ricoverato al Codivilla ammirava solo da lontano gli sciatori, perché a causa della sua malattia delle ossa non poteva praticare. “Non potevo e mi dedicavo al ballo”. Lo sci contagia gli aristocratici e gli intellettuali: la contessa Emilia Howard-Bury di Sant’Alberto dona al sodalizio cortinese una ricca biblioteca. Ma solo dopo le Olimpiadi lo sci diventa moda, e si trasforma nello sport della nuova borghesia. I nuovi impianti di risalita fecero scomparire dalla narrativa le “frasi selvagge” di Hemingway. Si diffuse una nuova categoria di sciatori imperfetti, o della domenica. Tra di essi, ovviamente, altri scrittori. Per esempio Giuseppe Berto, l’autore de Il male oscuro, che raccontò con ironia i rituali della stagione invernale.
“La vita invernale ruota intorno a due poli: la vita sportiva e della vita mondana. C’è, si capisce, anche qualcuno che viene a Cortina soltanto per sciare …Qualcuno invece, e qui si parla specialmente delle signore, tenta di far rientrare nello sport anche il ballo o almeno l’elioterapia”. Berto era malato di depressione, ma a Cortina guarì e diventò un reuccio delle feste, contesso tra le grandi dame come Marta Marzotto e Ira Furstemberg. “C’è a parecchia gente – prosegue – collocata abbastanza in alto nella scala dei valori sociali che evita il soggiorno natalizio perché in quel periodo la perla delle Dolomiti risulta eccessivamente ingombra di ragazzi e bambini che producono intralci non indifferenti all’attività mondana. Inoltre, proprio nella fase natalizia si verifica una più massiccia calata di avventurieri ed avventuriere magari gradevoli a vedersi ma di scarsa consistenza sia genealogica che economica, i quali approfittano della confusione per intrufolarsi in ambienti dove peraltro vengono quasi sempre identificati”. Il tema del jet set invernale torna in diversi romanzi del 900: “Negli alberghi e nei caffè – racconta Giovanni Comisso – si faceva sfoggio ad alta voce di attributi e dei titoli nobiliari quasi perché trovandosi come sconosciuti in quella nuova Città, si volesse fare sapere che le relazioni erano egregie”.
Negli anni 60 sulle seggiovie si faceva sfoggio delle relazioni ma anche delle nuove tecniche di discesa, come narra Buzzati: “Ho incontrato una simpatica e brillante signora, vecchia conoscenza delle nevi: Buongiorno, che piacere di vederla. Anche lei ridimensionato? Come? Dico: Spero bene che lei scodinzoli, oramai”. A forza di scriverne e di parlarne i pendii divennero famosi come il canalone delle Tofane, oppure Sci 18 (un cunicolo ghiacciato che scende dal Faloria e non consente manovre) o la mitica Col Druscié, sulla quale Toni Sailer aveva vinto lo slalom speciale delle Olimpiadi. La dedizione all’apprendimento però non sempre premiava. E così nei romanzi entra anche ala tragedia. La scrittrice Milena Milani mette in scena nel suo scandaloso romanzo La ragazza di nome Giulio (sequestrato negli anni 60 per oscenità), un incidente sciistico mortale. “Facciamo la A, è più bella. Ma è molto difficile ‑ rispose Camillo seduto accanto a me ‑ senza maestro è meglio fare la B”.
Stefano Agnoli
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