Mircea Eliade, in una nota del suo diario: «Ravenna mi impressionò talmente che non osai scrivere le mie impressioni». Viene quindi da chiedersi se sia possibile descrivere in maniera esaustiva la città romagnola: forse quella che Hyppolite Taine definì «una sorta di relitto insabbiato che Bisanzio, ritirandosi, ha lasciato sulla costa» va più che altro visitata, percepita – sarà mai assorbita nella sua interezza? – vissuta.
Le suggestioni romantiche si accostano ai fenomeni paranormali, e se da una parte Vernon Lee, pseudonimo di Violet Paget, avverte sinistre presenze, «Ravenna è, dopotutto, un nido di fantasmi. Si aggirano in tutte quelle chiese umide e silenziose, invisibili, o al massimo tormentano qualcuno con un barlume improvviso che potrebbe, del resto, essere solo quello dei mosaici. Ma si sente il loro respiro tutt’intorno. Vescovi ed esarchi, imperatrici ingioiellate, e metà degli autocrati orientali, santi e cortigiane agghindate, guardie barbare e malvagi ciambellani», dall’altra Carl Gustav Jung riporta un’esperienza realmente vissuta nel Battistero Neoniano, «il quarto mosaico era il più efficace. Lo guardammo per ultimo. Rappresentava Cristo che tendeva la mano a Pietro, mentre questi stava per affogare nelle onde. Sostammo di fronte a questo mosaico per circa venti minuti, e discutemmo del rituale originario del battesimo. Ho conservato un chiarissimo ricordo del mosaico di Pietro che affoga. Quando ero di nuovo in patria, chiesi a un mio conoscente che andava a Ravenna di procurarmi le riproduzioni. Naturalmente non poté trovarle, perché i mosaici che io avevo descritto non esistevano!».
Vive di contrasti, Ravenna. Ospita in pari misura vita e morte, le condensa, alterando quindi i riferimenti, come in Sidonio Apollinare, che in una lettera a Candiniano – siamo nel V secolo d.C. – racconta di «una palude, dove tutte le forme della vita si presentano alla rovescia: dove i muri cadono e le acque stanno, le torri scorrono giù e le navi si piantano fisse, gli invalidi vanno girando e i loro medici si mettono a letto, i bagni gelano e le case bruciano, i vivi muoiono di sete e i morti galleggiano sull’acqua».
La «quantunque naturalmente malinconica», in un verso di Louis Colet, non può che attrarre e sedurre, disorientare e stordire, affascinare. Vi passeranno, e ne lasceranno traccia, anche Honoré de Balzac, Anatole France, Aleksandr Blok, Marguerite Yourcenar, Karel Čapek, Oscar Wilde, Hermann Hesse, William Butler Yeats, Thomas Stearns Eliot, Jorge Luis Borges, Henry James, Sigmund Freud, Lord Byron, Percy Bysshe Shelley… Autori tutti i cui testi nobiliterebbero qualsivoglia antologia, donne e uomini che hanno comunque visto aumentare la propria caratura poetica anche attraverso una sola sosta nella città: la Basilica di San Vitale, il Mausoleo di Galla Placidia, il Battistero degli Ariani, il Battistero Neoniano, la Cappella Arcivescovile, la Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, il Mausoleo di Teodorico, Sant’Apollinare in Classe, insieme, scuotono le coscienze, elevano l’arte, eternano Ravenna.
Difficile rendere fino in fondo l’atmosfera della città, si procede per annotazioni, racconti, aneddoti. Nel suo Vagabondaggio in Italia, del 1839-1840, scrive Marguerite Power Farmer Gardiner, Contessa di Blessington: «mentre camminavamo fummo sorpresi di vedere le strade completamente deserte e le case chiuse, che facevano apparire la città vuota come se fosse stata tormentata dalla peste e abbandonata da coloro che potevano lasciarla. Non si vedeva un solo essere umano; perfino i cani sembravano essersene andati. Formulammo varie ipotesi sulla possibile causa di quell’abbandono, quando all’improvviso, svoltando un angolo, il mistero si risolse lasciandoci non poco turbati: venimmo infatti quasi a contatto fisico con i corpi di tre uomini che penzolavano da pertiche erette per impiccarli».
Altre invece saranno le parole di Marguerite Yourcenar – Pellegrina e straniera –, che poco meno di un secolo dopo la Contessa visiterà Ravenna, e vi riconoscerà i tratti del decadente precursore dell’estetismo europeo Joris-Karl Huysmans: un tempo splendente di ori e mosaici, la città andrà via via incontro al declino, che la scrittrice franco-belga sembra però voler esorcizzare esaltando tra chiese e mosaici l’epoca dello splendore, «l’iperbole e la parabola qui sono le due parole magiche matematiche delle absidi, le due formule della curva alle quali il peso delle pietre obbedisce. Grammaticale o geometrico che sia, il loro uso si manifesta ad ogni pagina di questi libri di vetro e di oro. Parabole del Cristo, iperbole del linguaggio imperiale».
È in assonanza a Yourcenar, Guido Piovene, nel 1957, in Viaggio in Italia: «se mi è permesso esprimere una preferenza, dirò che una visita ai grandi mosaici ravennati mi mette in uno stato di esaltazione come nessun ciclo d’affreschi. Specialmente colpisce la sublimità dei concetti. Quei gorghi d’oro, quegli azzurri stellari, fiumi di fuoco, nuvole ultraterrene, ci rappresentano un’alta vicenda celeste».
E nei titoli Idler in Italy, En pèlerin et en étranger e Viaggio in Italia ricorre il campo semantico della Wanderung, cara a Hermann Hesse, che fisserà su carta – 1902 – le impressioni raccolte nell’aprile del 1901 proprio a Ravenna, «è una piccola città morta, ricca di chiese e di rovine, di cui notizia più d’un libro porta. Tu l’attraversi e poi ti guardi intorno, le sue strade sono torbide e bagnate e sono da un millennio mute e dappertutto trovi erba e muschio. È come per le canzoni un po’ passate: nessuno ride dopo averle ascoltate; ma poi tutti le voglion riascoltare; e sino a tarda notte meditare».
Un nome, poi, si staglia dalla memoria storica di Ravenna, dalla città che fu capitale dell’Impero romano d’Occidente, del regno Goto di Teodorico e dell’Esarcato bizantino: Galla Placidia. Figlia dell’imperatore Teodosio I, nipote di altri tre imperatori, sorella di Arcadio e Onorio a loro volta imperatori, moglie prima del re dei Visigoti Ataulfo e dopo dell’imperatore Costanzo III, madre dell’imperatore Valentiniano III e zia dell’imperatore Teodosio II, Galla Placidia fu donna colta e raffinata, tra le figure più imponenti menzionate da Jung in Ricordi, sogni, riflessioni, «la sua tomba mi sembrava come un ultimo vestigio attraverso il quale potessi avere con lei un rapporto diretto. Il suo destino e tutto il suo essere mi toccavano profondamente, e nella sua natura fervente la mia “anima” trovava un’adeguata manifestazione storica».
Conciso è invece François-René de Chateaubriand, in Memorie d’oltretomba, «ho ritrovato Costantinopoli a San Vitale e a Sant’Apollinare».
E forse no, non è possibile descrivere – circoscrivere – Ravenna: la città eccede, trascende se stessa. E rinnova la sua sfida al tempo, se è vero che il 14 settembre 2021 saranno trascorsi 700 anni dalla morte di Dante Alighieri. Il poeta, esiliato da Firenze, terminò il Paradiso proprio nella città romagnola, che non mancò di omaggiare tra le terzine e gli endecasillabi della Divina Commedia.
«Il sepolcro di Dante, va pur detto, è tutto fuorché dantesco. Per fortuna di tutti i poeti, essi non hanno bisogno di monumenti, poiché sono innanzitutto architetti della parola e con essa si costruiscono templi di gloria più solide delle mura ciclopiche», così Henry James, in Ore italiane.
Del Sommo Poeta presto scriveremo. Ora però, con Lord Byron, tocca congedarsi da Ravenna, da quel luogo «che conserva il vecchio stile italiano più di qualsiasi altra città. La gente fa molto l’amore e assassina ogni tanto».
Storia, arte, passioni: Ravenna è una gemma incastonata nella bellezza di platino della Romagna. Visitarla e rivisitarla è quasi un dovere.
Antonio Scerbo