«bovarismo s. m. [dal nome di Madame Bovary, protagonista dell’omonimo romanzo (1857) di G. Flaubert]. – Insoddisfazione spirituale; tendenza psicologica a costruirsi una personalità fittizia, a sostenere un ruolo non corrispondente alla propria condizione sociale; desiderio smanioso di evasione dalla realtà, soprattutto in riferimento a particolari situazioni ambientali, sociologiche e sim.», dal vocabolario Treccani.
Nel maggio del 1880 moriva Gustave Flaubert, eternandosi però in Madame Bovary, almeno nella misura in cui ebbe la capacità di cristallizzare con il romanzo una tra le pieghe più caratterizzanti l’animo umano. Se ne accorse il filosofo francese Jules de Gaultier, appassionato conoscitore di Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche, tanto da teorizzare quel pensiero a cui diede anche il nome, bovarismo.
Forse Madame Bovary si agitava già nel giovane Flaubert, figlio illegittimo del suo tempo, «la politica futura è una ferraglia. O, se vogliamo, siamo sulla soglia della barbarie. Mi basterebbe, per godere, che tutta la civiltà collassi come un’impalcatura sulla quale si sta appena cominciando a costruire l’edificio. Che pena, la filosofia della storia consisterebbe soltanto nel ricominciare daccapo. Mi piacerebbe stare alle porte di Parigi con cinquemila barbari e dar fuoco alla città. Che urla, che rovina. Rovina su rovina». Era il 1840. Una rabbia incendiaria che pur non trovando sfogo, non si flette in ombra, «la malinconia è una voluttà che eccitiamo da soli. Quante persone si rinchiudono per sentirsi più tristi, vanno a piagnucolare ai ruscelli o escogitano a tavolino un libro sentimentale. Noi altri facciamo e disfiamo, senza tregua», e che anzi spinge a portarsi oltre il confine del reale, dove le passioni non temono giudizio, aprendo a nuovi scenari, «quando si è letto il Marchese de Sade, passato il primo abbaglio, uno si chiede se tutto quello non sia verità. Se la verità non sia tutto quanto lui ci vuol insegnare. Questo succede perché non si può resistere a un’ipotesi che fa sognare – forza senza limiti, poteri di là dal normale».
Se Gustave Flaubert avesse potuto incontrare i versi di Antonia Pozzi – che muore suicida, come Delphine Delamare ed Emma Bovary – avrebbe forse visto riflesso nella poetessa quel desiderio di trascendenza che capita riesca anche a corrodere, «Vorrei toccare con le mie dita / l’orlo delle campane, quando cade il giorno / e si leva la brezza: / sentir passare nel bronzo il battito / di grandi voli lontani», leggiamo in Pianura.
Qualcosa chiama da un altrove, se ne avverte la voce in dissolvenza, e l’immaginazione si lascia condurre, prende il largo, rischia il naufragio.
Solo qualche anno prima della pubblicazione di Madame Bovary, Herman Melville dava alle stampe Moby Dick. Si pensi ora a un giovane marinaio di vedetta, sulla testa d’albero di una baleniera, «ma in una tale oppiacea noncuranza di assente e inconscia fantasticheria viene cullato questo assorto giovane dalla cadenza mista delle onde e dei pensieri, che alla fine smarrisce ogni identità, prende il mistico oceano ai suoi piedi per lʼimmagine visibile di quellʼanima azzurra, profonda e sconfinata che pervade lʼumanità e la natura; e ogni bizzarra, intravista e sgusciante bella cosa che lo eluda, ogni pinna dritta e incerta dalla forma inafferrabile, gli pare lʼincarnazione di quei pensieri elusivi che popolano soltanto lo spirito attraversandolo continuamente come a volo. In quest’umore incantato lʼanima ti rifluisce donde uscì, si diffonde per il tempo e per lo spazio, formando finalmente, come le panteistiche ceneri disperse di Cranmer, una parte di ogni spiaggia per tutto il mondo quant’è grande. Non cʼè ora in te nessuna vita eccetto quella vita dondolante che ti è impressa dal lieve rollio della nave: che la nave deriva dal mare, e il mare dal flutto imperscrutabile di Dio. Ma mentre questo sonno, o questo sogno, vi riposa addosso, muovete dʼun pollice il piede o la mano, lasciate andare comunque la presa, e lʼidentità vi ritorna atterrita. Voi vi librate sopra vortici cartesiani. E magari, a mezzogiorno, nella più bella delle temperature, con un urlo a metà soffocato voi cadete attraverso lʼaria trasparente nel mare estivo, per non risorgere mai più. Stateci attenti, o panteisti!».
La posta in gioco è in effetti assai alta, ma a quale salute va incontro lo scrittore che si sottrae al lancio dei dadi, tacendosi? Flaubert in una lettera del 1852 a Louise Colet: «serbare il midollo del cuore per dosarlo a minuscole fettine, mettere il succo delle passioni in bottiglie, preservare il residuo prezioso che nutrirà la posterità. Non è terribile? E cosa perdiamo con questo incapsulamento dell’eternità, con questa domestica voglia di mettere canfora nei cassetti e negli astucci che conservano i polverosi manoscritti? Non perdiamo forse così, per sempre, il libero fluire del cuore?».
All’improvviso diventa necessario assecondare i propri slanci, non c’è altra via, pur restando sconosciuta la meta. Che non si tratti di liberazione dal male, di uno scatenamento, in fuga da quel blocco oscuro che risponde ai cinque sensi, a volte lacerandoli?
Gustave Flaubert è un uomo, e come tanti ha conosciuto l’orrore: «Ricordo quando, sette anni fa, con il povero papà Parain, vidi delle pazze. Sedute e legate a metà del corpo nelle celle, nude sino alla cintola, tutte scarmigliate, dodici donne urlavano e si graffiavano il viso con le unghie. Io ne ero sconvolto. Ma è bene avere certe impressioni quando si è molto piccoli; da’ densità morale, energia, rilievo alle percezioni future, quando la realtà esterna entra in noi fino a farci gridare, quando il modello si imprime negli occhi come un marchio rovente, quando la verità ti trafigge come in queste abominevoli mostre della miseria umana, lo spirito vi si precipita sopra per divorare e assimilare».
Non è dato sapere quanto del proprio vissuto forgi l’artista, e se vita e arte si tocchino, se si confondano o restino distinte in contrasto. Quel che è certo è che comporre e definire Madame Bovary – Flaubert trasse ispirazione dalla cronaca, dopo aver letto, nel 1848, del suicidio nel villaggio di Ry, nei pressi di Rouen, della giovane Delphine Delamare – richiese al suo autore sforzi del corpo e dello spirito, come del resto egli ammise, «il libro mi tortura al punto che ne sono fisicamente ammalato. È da tre settimane che ho dolori da svenire: mi tormenta un senso di oppressione e a tavola mi viene voglia di vomitare. Credo che oggi mi sarei impiccato con piacere, se l’orgoglio me lo avesse permesso».
I dadi, però, sanno generare anche il numero giusto, combinando la prosa in poesia, «c’è, in ogni libro, oltre le torture dello stile che strema e consuma, quella frase inebriante che devo trovare e che, ogni volta, a scriverla, gonfia il cuore e dissolve tutti i terrori, quella frase che è la vita stessa».
A oltre 140 anni dalla sua morte, continuiamo a celebrare l’autore di Madame Bovary, nella consapevolezza che il bovarismo con ogni probabilità ha fatto visita anche a noi, forse in una tentazione, forse in una brama ancora inconsolabile.
Antonio Scerbo