Sono trascorsi 76 anni dalla Liberazione, e la memoria non è imperitura, si affievolisce via via, rischia di cedere. Il nostro Paese è disseminato di luoghi simbolo della Resistenza, perché si ricordi quanto accaduto: la responsabilità è collettiva, verranno nuove generazioni.
E allora ritorniamo pure nella Bologna del novembre 1944, e al buon esito della battaglia di Porta Lame, che in una lettera alla madre fece dire a Carolina Pepoli Tattini: «sono stati fatti prodigi di valore». I partigiani, è noto, sconfissero i nazifascisti, e tra i tanti ne scrisse anche la bolognese Renata Viganò, con Agnese va a morire.
La Resistenza a Bologna fu viscerale, l’animo si scuote con le parole di E mi chiamai Giuliana, di Tolmina Guazzaloca: «l’odio aveva assunto una dimensione così grande da diventare quasi un fatto normale: la parola partigiano o ribelle faceva dimenticare persino i legami di sangue», e scosso, percosso e disonorato fu il corpo della staffetta Mimma, all’anagrafe Irma Bandiera, che visse un autentico martirio: catturata il 7 agosto 1944 di ritorno da una consegna di armi alla base di Castelmaggiore, non una parola sui compagni disse ai suoi carnefici; ancora in vita dopo una settimana di sevizie, già accecata, venne gettata al Meloncello sotto la finestra dei suoi genitori, dove, sempre ferma nel suo silenzio, fu uccisa con una raffica di pallottole.
E che dire delle quasi cento incursioni aeree che Bologna subì nel corso della guerra? «Cambiò anche l’architettura della città», leggiamo in Tango e gli altri, di Loriano Macchiavelli e Francesco Guccini. Gli scali ferroviari erano punti nevralgici, andavano abbattuti per impedire lo spostamento di truppe e rifornimenti dal nord-est al centro e viceversa. La stazione di Bologna fu la stazione di Giovanni Comisso e de Le mie stagioni: «una sera mentre scrivevo mi giunse l’avviso che ero stato richiamato alle armi; dovevo presentarmi a Bologna. Alla stazione passavano tradotte con soldati tristi […]. Credevo di essere riuscito a fare di me un individuo e invece mi accorgevo di essere semplicemente ancora un numero».
E a noi piace pensare che dallo sfondo della Bologna letteraria riuscirà sempre a stagliarsi il grande libro della Resistenza.
E forse quelle «tradotte con soldati tristi» giungevano da Milano, forse sarebbero giunte a Milano, in quella stessa città che, ospitando in via Copernico 9 la sede del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, faceva da contraltare alla Repubblica di Salò.
Milano dunque capitale della Resistenza, con le squadre dei Gruppi d’Azione Patriottica, con Luigi Longo, Ferruccio Parri, Sandro Pertini, Giovanni Pesce, Giulio Sereni, nomi che a oggi, ancora, alimentano l’eco della Resistenza.
Era satura l’atmosfera in quegli anni a Milano, la gente «sembrava anzi che comprendesse ogni cosa. Nessuno si stupiva di niente. Nessuno domandava spiegazioni. E nessuno si sbagliava.», scrive Elio Vittorini in Uomini e no, lasciando a Enne 2, nel tormento d’amore, anche l’incombenza di chiedersi quanto fosse sensata quella vita lì, che scivolava lungo il piano inclinato della lotta, dell’abominio, della sofferenza senza respiro.
Eppure Milano resta un crocevia: ancor prima di piazzale Loreto, il 24 aprile e l’insurrezione a Niguarda innescata dallo scontro tra partigiani e fascisti in piazza Belloveso, e il giorno dopo il proclama Arrendersi o perire! del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e del Corpo Volontari della Libertà, con Sandro Pertini dai microfoni di Radio Milano Liberata, e la trattativa in Arcivescovado, dove «si sono fronteggiate due diverse idee di Italia: una, quella fascista, che sta franando e che sta per prendere la via della fuga in Valtellina; l’altra che pare avere la vittoria in pugno. Tutti sanno che è l’ora della resa dei conti. Siamo a Milano, alla fine della giornata che segna l’alba di una nuova Italia: sono le 19 e qualche minuto del 25 aprile 1945», racconta Carlo Greppi nel suo 25 aprile 1945.
Milano non è semplicemente «l’ultima delle capitali prosaiche», come di lei disse Henry James… Milano è la città dei poeti, di Alfonso Gatto, Alda Merini, Eugenio Montale, Umberto Saba, Vittorio Sereni.
E c’è poesia anche nella Resistenza, la bellezza dei cui versi, perché resti tale, ha però bisogno di continuare a risuonare sulla superficie delle nostre coscienze.
Antonio Scerbo