C’è una valle, in fondo alla Romagna, lì al confine con le Marche e la Toscana, attraversata da un fiume che le dà anche il nome, il Marecchia, che pare essere culla di favole e di fiabe.
Si confidi o meno nei giochi dell’immaginazione, la Valmarecchia comunque incanta, con scorci di rara bellezza in cui il tempo sembra aver perso il suo passo, rallentando, fermandosi.
Arroccati su scarpate e spalti rocciosi, Verucchio, San Marino, San Leo, e ancora Petrella Guidi, Sant’Agata Feltria, Pennabilli e Santarcangelo, Carpegna e Pietrarubbia, mantengono un fascino pieno di lontananza, comunque accessibile, mai ostile.
Si prenda San Leo, teatro di lotte tra casate e dinastie dal Medioevo al Rinascimento, Malatesta, Montefeltro, Borgia, Della Rovere. Vi passò anche Goethe, «era scritto che mi dovesse capitare prima della partenza un caso strano. Fin dai primi giorni della mia venuta in questa città avevo udito spesso far parola di Cagliostro, della sua origine, delle sue avventure. Erano d’accordo tutti nell’asserire che un tale Giuseppe Balsamo, diffamato per vari delitti era stato bandito dall’isola, ma non erano poi d’accordo nel ritenere che il Giuseppe Balsamo ed il conte Cagliostro fossero la stessa persona», scrive in Viaggio in Italia.
In effetti, avventuriero, massone, alchimista, Giuseppe Balsamo, noto come Alessandro conte di Cagliostro, fece parlare di sé eccome, del suo personaggio furono riempiti volumi e volumi con Alexandre Dumas, Thomas Carlyle, Friedrich Schiller, Lev Tolstoj, Stephan Zweig, finì nelle musiche di Mozart, in un film di Visconti. Soprattutto diede molti grattacapi alla Santa Inquisizione, tanto da passare imprigionato il resto dei suoi giorni nel Pozzetto, una cella all’interno della Fortezza di San Leo. «Il governatore ordinò che venisse bastonato e perché gli passasse la voglia di fuggire fosse trasportato nella prigione del Pozzetto, ed ivi incatenato per un piede a un grosso anello. Il prigioniero non mandò un lamento. Torvo, chiuso in un dolore disperato, lasciò compiere contro di sé le più crudeli rappresaglie. La prigione del Pozzetto si trovava nella torricella del mastio, a occidente; alta dal suolo circa settantaquattro braccia. Angusta, umida, semioscura, non aveva porta; vi si entrava dall’alto, per una botola. Nessuna fibra, per quanto forte, avrebbe potuto durare a lungo in quella sepoltura», Luigi Natoli in Cagliostro e le sue avventure, del 1914. Valga però su tutto quel che Cagliostro disse nel 1786 al procuratore generale di Parigi, «la verità su di me non sarà mai scritta, perché nessuno la conosce. Io non sono di nessuna epoca e di nessun luogo; al di fuori del tempo e dello spazio, il mio essere spirituale vive la sua eterna esistenza e se mi immergo nel mio pensiero rifacendo il corso degli anni, se proietto il mio spirito verso un modo di vivere lontano da colui che voi percepite, io divento colui che desidero. Io sono colui che è. Io sono Cagliostro».
Parole a loro modo definitive, permeate da uno spirito assai distante da quel «relinquo vos liberos ab utroque homine» del tagliapietre di origine dalmata che, in fuga dalle persecuzioni dell’imperatore Diocleziano, fondò sul Monte Titano una comunità cristiana. «Vi libero da ambedue gli uomini», disse infatti San Marino, inaugurando così la più antica repubblica del mondo, indipendente dal potere temporale e secolare, dal papa e dall’imperatore.
«Non lontano da Rimini c’è un monte molto alto che si presenta isolato rispetto alla catena appenninica. È di forma irregolare e in vetta ha una piccola città, mentre sui declivi appare molto più popoloso e coltivato di quanto in genere accade sulle montagne. Si tratta di San Marino, la più antica repubblica del mondo cristiano», è la descrizione che ne fa James Fennimore Cooper – già conosciuto per L’ultimo dei Mohicani – in Gleanings in Europe: Italy, del 1838.
E come San Marino, anche San Leo prende il nome da un frate originario della Dalmazia: lo scalpellino Leo giunse in quelle terre proprio insieme a Marino, e sul Monte Feliciano edificò una chiesa e un convento. «Anche allora un senso di malattia, un bisogno di riposo, una irrequietezza di cose nove affliggevano, nel decomporsi la civiltà pagana, le menti: gli affaticati, gli oppressi, gli operai, gli schiavi guardavano in alto. E approdati dalle coste della Dalmazia in lontananza cerulee ai lavori del porto e delle mura di Rimini, due cristiani dai nomi italici, Marino e Leo, quassù vennero, non sappiamo se cercando materiali al lavoro o fuggendo ira di persecutori. Vennero; e tra il fatidico stormire delle foreste antichissime intatte e il pianto delle acque irrompenti, tra i bràmiti delle belve disturbate dai covili e lo scroscio delle procelle battenti le vette, quassù trovarono le due nobilissime soddisfazioni della vita umana, dignità di lavoro e libertà di credenza», con Giosuè Carducci.
Ma la vera grande voce dell’entroterra romagnolo resta quella di Tonino Guerra e di un talento che attraverso la poesia, la scrittura e la sceneggiatura ha cantato in ogni sua forma la bellezza delle terre della Valmarecchia.
Guerra ritrae un’umanità minoritaria, comunque rappresentante di un mondo in cui un solo baluginio vale ancora quanto un’illuminazione, una rivelazione, «il romito Lorenzo viveva in una casupola che si era fatta con le sue mani mettendo una sull’altra le schegge di roccia che raccoglieva sul monte Zucca, dove cresceva dell’erba spinosa che non piaceva neanche alle capre. Lorenzo era analfabeta e diceva delle cose grandi e sconosciute al mondo senza maneggiare libri santi. Beveva l’acqua piovana che raccoglieva in un tegame appeso sull’orlo del tetto. Nel tegame stavano a bagno le fave che lui regalava a chi aveva le bestie ammalate, che così guarivano. A quelli che avevano dei mali incurabili e venivano da lui per consigli diceva che la malattia ha paura dell’indifferenza. E così gli ammalati si mettevano a vivere senza pensare al male e la vita si allungava», in Polvere di sole. 101 storie per accendere l’umanità. E in un’altra storia, ma nello stesso spazio incantato, «sono arrivato alla sua casetta un pomeriggio d’estate. […] “Qui non capita mai nessuno” mi disse. Ma subito ha ripreso a riempire d’acqua una dozzina di recipienti attorno a casa. “È acqua piovana” disse. Infatti riempiva grossi mestoli da alte botti di metallo. A un certo punto mi invitò a seguirlo e passammo a guardare che in fondo all’acqua dei tegami c’erano delle piccole lune che si specchiavano».
E a testimoniare che in Valmarecchia il paesaggio, le favole e le fiabe continuano a rincorrersi, lasciandosi dietro la scia viva della magia, ancora e meravigliosamente Tonino Guerra, «c’è un signore che sta in solitudine da molti anni a Montetiffi da quando uno studioso di Napoli lo ha convinto che gran parte degli arcobaleni nascono dalle crepe della grande roccia pianeggiante che copre la sorgente del fiume Uso. L’acqua con grande sforzo sale le fessure e crea la piccola corrente del torrente e anche una nuvola di vapore che prende diversi colori. Il signore mi ha portato fino a quel letto di rocce crepate un giorno di pioggia leggera. Mi ha pregato di stare sotto l’ombrello ad aspettare di vedere il primo arcobaleno».
Sembra già che se ne riempiano gli occhi.
Antonio Scerbo