Marguerite Yourcenar nasce a Bruxelles l’8 giugno 1903. Scrittrice, poetessa, è la prima donna eletta alla Académie française.
La lingua francese in effetti deve tanto all’autrice di Memorie di Adriano.
Stefania Ricciardi ne ha di recente tradotto Moneta del sogno, e nella prefazione al libro che Yourcenar pubblica nel 1935, si esprime sullo stile della francese, «Yourcenar, che leggeva correntemente il greco antico e il latino, è nota per lo stile classico, per la scrittura cesellata, “scolpita nel marmo” – come hanno osservato diversi critici – ma permeata della leggerezza nell’accezione calviniana, che implica precisione e determinazione. Ecco, credo che il suo carisma risieda nella frase levigata, elegante ma essenziale, senza un grammo di troppo, capace di interpellare direttamente l’animo umano».
Anche l’ombra concorre alla luce, e in Opera al nero, così come in Memorie di Adriano, Yourcenar non schiva il lato debole della personalità: conosciamo ogni uomo nella sua umanità se ne intendiamo gli affanni e le cadute, dietro l’angolo la sorte infausta potrebbe essere la nostra. Zenone e Adriano vivono nelle vertigini dell’altezza, che riemergono in incessante fatica dalla densità della notte. E con la sua scrittura, Marguerite Yourcenar non induce a squilibri di colore, ma a un’esperienza di lettura in cui ogni dettaglio si palesa nel riverbero della sua essenza.
L’esordio letterario è del 1929, con Alexis o il trattato della lotta vana, segue quindi Denier du Rêve, le cui prime forme, insieme alla decisione per Memorie di Adriano, si delineano durante la visita a Roma della giovane scrittrice. Nel libro intervista Ad occhi aperti, dirà di quel viaggio nella Capitale a Matthieu Galey, «il fascismo mi sembrava grottesco; avevo visto la marcia su Roma: dei signori di “buona famiglia”, accaldati nelle loro camicie nere, e altri tipi che venivano pestati perché non erano d’accordo. Non mi era sembrata una bella cosa».
Yourcenar tornerà in Italia, ci saranno il Lago Maggiore, Capri. Resterà colpita da Ravenna, «non c’è altra città dove si risenta maggiormente lo iato tra l’interno e l’esterno, tra la vita pubblica e la segreta vita solitaria. Sulla piazza il sole riscalda le sedie di ferro davanti alla porta di un caffè; bambini sporchi, donne debordanti di maternità vociano nelle strade tristi», e ne verrà fuori un saggio, Ravenne ou le péché mortel, poi parte della raccolta postuma En pèlerin et en étranger, Pellegrina e straniera. E ancora, «Ho letto ieri per la prima volta il romanzo di Huysmans Controcorrente, e l’ho letto qui, a Ravenna. In questa città, questo libro discutibile si sottrae alla moda per diventare Storia. Des Esseintes a Ravenna non è mai venuto, che importa? Tra i suoi esercizi spirituali i viaggi non erano contemplati. Il personaggio, confortevolmente imbacuccato in abiti di broccato, avrebbe potuto avvolgersi intorno questa città come un cappotto di pietra», riconoscendo nella città romagnola i tratti del decadente precursore dell’estetismo europeo Joris-Karl Huysmans.
«Questo centinaio di pagine faceva parte, in origine, di un vasto e informe progetto di romanzo, Remous, abbozzato tra i diciotto e i ventitré anni, che conteneva in germe buona parte della mia produzione futura», dichiara la scrittrice riferendosi a Come l’acqua che scorre, sua ultima opera narrativa, pubblicata in Francia nel 1982. Comme l’eau qui coule contiene tre racconti, Anna, soror, Un uomo oscuro e Una bella mattina, il primo in realtà dato alla luce nell’anno precedente, 1981.
Nella postfazione, Marguerite Yourcenar, oltre a dare il senso del titolo della raccolta, scosta qualche velo e scopre parte della sua poetica: Comme l’eau qui coule vuole rappresentare «quella strana condizione che è quella dell’intera esistenza, in cui tutto fluisce come l’acqua che scorre, ma in cui, soli, i fatti che hanno contato, invece di depositarsi al fondo, emergono alla superficie e raggiungono con noi il mare».
Attingendo dall’esistenzialismo di Yourcenar, da parole che non necessitano di alcuna aggiunta, definitive, scivola indolore, pur lasciando un graffio, quello che, in Anna, soror, una bambina allevatrice di serpenti dice a uno dei protagonisti del racconto, Don Miguel, «le vipere, Monsignore, strisciano dovunque, senza contare quelle che si hanno nel cuore».
E nonostante il veleno sia dappertutto, non è inevitabile cedere alla paralisi, galleggiando sul dolore: Marguerite Yourcenar indica una chiave, forse per chiudere quelle porte aperte su stanze desolanti, «bisogna imparare di nuovo ad amare la condizione umana qual è, accettare i suoi limiti e i suoi rischi, avere un rapporto diretto con le cose, rinunciare ai nostri dogmi di partito, di patria, di religione, tutti intransigenti e dunque tutti forieri di morte. Quando faccio il pane, penso alla gente che ha fatto spuntare il grano, penso ai profittatori che ne gonfiano artificialmente il prezzo, ai tecnocrati che ne hanno guastata la qualità – non che le tecniche recenti siano necessariamente un male, ma il fatto è che si sono messe al servizio dell’avidità che è certamente un male, e che la maggior parte di esse sussiste solo in virtù di grandi concentrazioni di forze che sono piene di potenziali pericoli. Penso a chi non ha pane, e a chi ne ha troppo, penso alla terra e al sole che fanno crescere le piante».
Saper fare delle vipere il companatico. Masticare, a fondo. Deglutire, con Marguerite Yourcenar.
Antonio Scerbo