Il Novecento ha vissuto il suo abominio, ma una luce di rara bellezza lo ha attraversato, l’alfa e l’omèga di Elias Canetti, scrittore senza pari.
Dire di Canetti accennando al premio Nobel per la letteratura assegnatogli nel 1981, «per i suoi lavori caratterizzati da un’ampia prospettiva, ricchezza di idee e potere artistico», sarebbe quasi come incasellarlo con il rischio della polvere, quando Canetti in realtà si erge a monolite, con libri dal valore capitale, Massa e potere su tutti. Canetti, che rifugge ogni riconoscimento, «le cariche onorifiche sono per gli imbecilli; meglio vivere nella vergogna che negli onori; soprattutto, niente onorificenze; libertà ad ogni prezzo, per pensare. Gli onori sono appesi come arazzi sugli occhi e sulle orecchie; chi riesce più a vedere, a sentire! Negli onori asfissiano i sogni e si disseccano gli anni buoni», una miriade di riflessioni concesse a quaderni riempiti senza desiderio di forma, pensieri, quelli di Canetti, capaci di scheggiare anche la pietra. Si tratta de Il cuore segreto dell’orologio, La tortura delle mosche, La provincia dell’uomo.
L’autobiografia è scandita in trilogia, La lingua salvata, Il frutto del fuoco, Il gioco degli occhi.
Un solo romanzo, Auto da fé, in tre parti, Una testa senza mondo, Un mondo senza testa, Il mondo nella testa: il sinologo Peter Kien, inizialmente trincerato dietro le carte e i libri, si vede defraudato di ogni bene dalla moglie Therese, già sua governante, e dal portiere del palazzo, Benedikt Pfaff. Finito per strada, Kien vive la Vienna più oscura, imbattendosi in Fischerle, nano, scacchista e uomo di dubbia virtù, costantemente invischiato in pratiche oltre il decoro e la legalità. A cercare di rimettere in sesto lo sperduto Kien verrà da Parigi il fratello George. Ma Kien non sarà più lo studioso acclamato di un tempo: ormai preda di ossessioni, trascinerà se stesso in un epilogo dirompente.
Con Auto da fé Canetti genera claustrofobia, in uno scenario di miseria, in un sobborgo che non nasconde la aberrazioni, abitato da un’umanità tanto bassa da risultare drammaticamente grottesca. Vi si agitano convulsamente personaggi inclini al male: con la messa al bando dei sentimenti, c’è spazio solo per violenza e sopraffazione.
Canetti assorbe lo spirito del tempo, segnato da grandi contraddizioni: all’apollinea Vienna fa da contraltare la dionisiaca Berlino, nella quale Canetti avrà modo di trascorrere diversi mesi ospite dell’editore Wieland Herzfelde. A Berlino conoscerà anche Bertolt Brecht. Ma ciò che più conta è la percezione d’insieme che la città tedesca lascerà a Canetti, la vivida sensazione di un mondo irrimediabilmente andato a pezzi, alla deriva. Canetti si prodigherà per raccontarlo.
Ne verrà fuori una rappresentazione impietosa del XX secolo: Auto da fé si consegna ai lettori nel 1935, poco prima delle tenebre del Nazismo. Il Novecento passerà alla storia come il secolo dei totalitarismi; ma un giovane studente di chimica e appassionato di letteratura, già nel 1931, concludendo la sua prima fatica letteraria, aveva già visto tutto: Una testa senza mondo, Un mondo senza testa, Il mondo nella testa.
Il diamante più puro è anche tagliente, «poiché senza parole non mi è dato di esistere, devo conservare fiducia nelle parole, e posso farlo soltanto se non le travesto. Ogni pretesa esteriore che sia basata sulle parole mi è dunque impossibile. Posso scriverle e conservarle in qualche posto, al riparo. Non posso gettarle in faccia a nessuno, né esercitare con esse alcun commercio. Mi ripugna anche soltanto mutare in esse qualcosa, una volta che sono state scritte. Tutte le chiacchiere sull’arte, specialmente quelle provenienti da chi ne pratica una, mi riescono insopportabili. Mi vergogno per costoro come per i ciarlatani, con la differenza che questi ultimi sono più interessanti. I libri mi sono sacri, ma questo non ha nulla a che fare con la letteratura, tanto meno con quella che scrivo io. Molte migliaia di libri sono per me più importanti dei pochissimi che ho scritto. Di fatto, ogni libro è per me la cosa più importante, in un modo fisico, che mi è difficile spiegare. Detesto la bellezza irreprensibile della prosa troppo consapevole… La bella prosa, che si muove nella sfera delle rimasticature e delle copie, è simile a una sfilata di moda della lingua, continua a girarsi e rigirarsi, non riesco nemmeno a disprezzarla».
Spesso in Canetti scrivere è percorrere strade senza l’assillo della meta, lasciando che le parole si disperdano, che assecondino il loro slancio, sia pure il condensarsi di un aforisma o il giro di una frase: «tutto quello che si è dimenticato grida aiuto nel sonno».
Quando si scrive non ci si pone a latere della vita, ma nella sua complessità, nella sua consumazione, «ogni scrittore che si è fatto un nome e tiene ad affermarsi sa molto bene che, appena lo fa, cessa di essere scrittore, perché allora amministra una posizione sociale come qualsiasi borghese. Eppure sa di alcuni scrittori che erano scrittori e basta, fino a tal punto che proprio non riuscivano in alcun modo a sostenersi nella società. Finiscono spenti e soffocati e hanno la scelta fra un vivere di peso a tutti, come mendicanti, e il manicomio. Chi sa farsi valere sa anche che quegli scrittori erano più puri di lui, e sopporta mentalmente di averli vicino a lungo, ma è senz’altro disposto a riverirli al manicomio. Essi sono le ferite distaccate dal suo corpo, e come tali continuano a vegetare. È edificante osservare e conoscere le proprie ferite, purché non le si sentano più sul proprio corpo».
Elias Canetti nasce nel luglio di 27 anni fa, e supera la morte rifulgendo di bellezza nelle righe in dedica a una donna, Alma Mahler, compositrice e scrittrice austriaca, e allo sguardo di lei, «vi sono occhi che fanno paura perché mirano solo a sbranare. Servono a rintracciare la preda che, una volta scoperta, è condannata a essere preda: anche se riesce a sottrarsi resta bollata come tale. È tremenda la fissità di uno sguardo inesorabile. Non cambia mai, è prefigurata per sempre, non c’è vittima che possa modificarla. Chi entra nel suo campo visivo è già vittima, non può opporre alcuna difesa, potrebbe salvarsi solo attraverso una metamorfosi totale. Poiché nella realtà la metamorfosi non è possibile, miti e uomini sono sorti per causa sua».
Antonio Scerbo