«Il sig. Beyle ha scritto un libro dove il sublime scoppia di capitolo in capitolo. Ha prodotto, nell’età in cui gli uomini trovano di rado argomenti grandiosi, un’opera che forse sarà apprezzata soltanto dai cuori delle persone realmente superiori. Infine ha scritto il Principe moderno, il romanzo che Machiavelli avrebbe scritto, se fosse vissuto nell’Italia del XIX secolo».
Il sig. Beyle, o meglio Marie-Henry Beyle, altri non è che Stendhal, lo scrittore noto soprattutto per Il rosso e il nero e La certosa di Parma, il libro che tanto piacque a Honoré de Balzac, che su Revue Parisienne, il 25 settembre 1840, commentando l’opera si espresse in toni entusiastici: lo riteneva un capolavoro.
La gestazione de La Chartreuse de Parme vide Stendhal in isolamento volontario nel suo studio per 52 giorni, dal 4 novembre al 26 dicembre 1838, durante i quali, a chiunque chiese dello scrittore, la servitù puntualmente rispose: «il signore è a caccia».
Ne nacque un romanzo realista, uno spaccato della nascente società borghese – in Europa spirava il vento della Rivoluzione francese – che in Italia però faticava a consolidarsi: il potere aristocratico e clericale era ancora ben saldo sulle poltrone. Parallelamente, i sogni e le aspirazioni individuali – controcanto costante alle idee fondative di ogni salto d’epoca – divennero presto illusioni perdute, come per il protagonista de La Chartreuse, Fabrizio del Dongo.
Sia come sia, Stendhal e il suo libro, edito nel 1839, diedero nuova eco alla città di Parma, «Stendhal avrebbe potuto tramandare nei secoli un’indimenticabile ritratto in prosa di Parma, la piccola, assonnata, provincia del nord Italia dove si svolge gran parte dell’azione del suo grande romanzo. Ma invece ha inventato; la sua Parma è immaginaria. Non menziona mai l’imperdibile battistero ottagonale di sei piani in marmo rosa e crema, uno degli edifici medievali più eleganti del mondo. Al suo posto, per così dire, erige un’enorme torre proibitiva, alta 180 piedi, che incombe sulla città, una prigione dove il nostro eroe, Fabrice del Dongo, viene alla fine incarcerato, e da cui fa una fuga audace», scrive Adam Begley sul New York Times, il 23 dicembre 2009, continuando così ad alimentare la diatriba sull’effettiva collocazione della certosa, se a Parma – come nelle convinzioni di Luigi Foscolo Benedetto, in La Parma di Stendhal – o a Modena – dove nacque e morì Antonio Delfini, certo, nel suo Modena 1831. Città della Chartreause, che Stendhal avesse scritto di Parma guardando invece proprio a Modena.
La prigione cui fa riferimento Begley, nella quale venne rinchiuso Fabrizio del Dongo, è «la famosa cittadella di Parma, terrore di tutta la Lombardia. Molto elevata – dicono centottanta piedi – e in mezzo a quella estesa pianura; si scorge assai da lontano un po’ per il suo aspetto orrendo, un po’ per le cose orribili che se ne raccontano, e signoreggia, con lo spavento, tutto il territorio da Milano a Bologna. I disgraziati prigionieri della cittadella stanno nella più rigorosa segregazione e sulle loro condizioni se ne raccontano d’ogni specie. I liberali accusano a Rassi d’essere l’inventore di questo trucco: carcerieri e confessori hanno ordine di far credere ai prigionieri che, ogni mese o press’a poco, uno di loro è messo a morte», così Stendhal ne La certosa di Parma, ma a onor del vero se ne scriveva già nel 1624, con il Principe di Condé in Voyage en Italie, «c’è un gran vialone ombreggiato dai rampanti alla cittadella, che è formata da cinque bastioni: tutto è finito, ad eccezione del fossato. In una parte si trovano più di cento pezzi di artiglieria e in altri tre posti armi in abbondanza per fanteria e cavalleria, molto belle», e nel 1681 con Jean Huguetan in Voyage d’Italie, «Parma ha una buona cittadella, fiancheggiata da cinque bastioni e in comunicazione con la città attraverso un passaggio coperto. È fornita di buona artiglieria e di ogni tipo di munizioni da guerra». Il voyage che ricorre nel titolo delle opere ci racconta quindi di una Parma che godeva di grande considerazione. La cittadella non è però solo carcere e arsenale, «Fabrizio scorgeva la campagna e lontanissime le Alpi; ai piedi della cittadella l’occhio seguiva il corso della Parma, torrentucolo che volgendo a destra, quattro leghe distante dalla città, va a gittarsi nel Po. Oltre la riva sinistra di questo torrente, che gli appariva come una sequenza di grandi chiazze bianche tra le campagne verdeggianti, il suo occhio ammirato distingueva nettamente ogni sommità della gigantesca muraglia che le Alpi formano al settentrione dell’Italia. Quelle vette coperte di nevi anche in agosto – correva appunto allora quel mese – offrono un ricordo di godute frescure a chi viva tra quelle campagne bruciate dal sole: sebbene a trenta leghe da Parma, l’occhio ne può discernere i minimi particolari».
La Parma di Stendhal non manca infatti di oasi nel verde, come l’aranceto di palazzo Crescenzi e dell’appuntamento notturno di Fabrizio e Clelia Conti, noto anche ad Anne-Marie d’Aignan d’Orbessan – «due grandi serre racchiudono, per una superficie di 900 piedi, aranci della massima bellezza; altri aranci, piantati in terra e disposti su steccati lungo le mura del giardino, costituiscono dei pergolati che terminano in due grandi padiglioni formati dagli stessi alberi» – in Melanges historiques, critiques, de physique, de littérature et de poésie, del 1768, e a J. de La Roche – «la pubblica passeggiata, che si sta costruendo sulla spianata che divide la città dalla cittadella, non potrebbe essere più gradevole. Questa spianata domina un bel giardino e l’aranciaia, che offrono punti di vista molto gradevoli. Il giardino del castello nuovo, chiamato giardino dell’aranciaia, è molto bello, grande, ben mantenuto» – in Voyage d’un amateur des arts, del 1783.
Paul Gaguin chiudeva gli occhi per poter vedere, non così Stendhal, che pare abbia scorto i tratti della sua Chartreuse nell’Abbazia di Nonantola, se non nell’Abbazia di Valserena.
Luogo letterario o meno, La Chartreuse de Parme secondo Giovanni Macchia «ha resistito alla sua stessa fortuna».
Valgano su tutte le indicazioni di Adam Begley, «se c’è un libro da portare per visitare Parma è proprio La Chartreuse. Senza mai descrivere la città, non i maestosi palazzi, né le ampie piazze e nemmeno l’impeccabile Duomo, il romanzo evoca esattamente il luogo, offrendo al turista uno sguardo nella sua anima segreta».
Come non prenderne nota?
Antonio Scerbo